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Mercoledì9 dicembre 2015

            Momenti di Musàr

        Parashàth Vayishlàch
        “…e Yaakòv arrivò integro…”(Bereshìth 33, 18).
        Il Gaon Rabbì Moshè Sofer di Presburg, conosciuto come Chatam
        Sofèr, commenta la parola shalem – integro seguendo il sistema
        interpretativo del notarikon (sistema in cui le lettere di una parola
        vengono utilizzate come iniziali di altre parole). La parola shalem – è
        composta da 3 lettere shin lamed mem iniziali queste delle parole
        shem - nome, lashon -linguaggio, malbush – indumenti. Ciò sta a
        significare che Yaàkòv nonostante abbia vissuto lontano dalla casa
        paterna in mezzo a gente idolatra è rimasto integro “shalem” grazie
        al fatto di aver mantenuto in modo attento a questi principi che
        lo hanno distinto dagli altri popoli e che non lo hanno portato ad
        assimilarsi a loro.
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        “Venne Yakòv integro ...” (Bereshìt 33, 18).
        Rabbì Menachem Mendel Schneerson, settimo Rebbe di Lubavitc, ci
        fa notare che dopo tutto quello che Yakòv aveva passato da suo suocero
56 Lavan, e dopo l’incontro con suo fratello Esàv, la Torà sottolinea il
        fatto che egli fosse “integro”. Il grande commentatore, Rabbì Shlomò
        Itzhaki, conosciuto per il suo acronimo come Rashì, spiega che egli
        era “integro” nel corpo, vale a dire che era guarito dalle ferite che
        gli aveva provocato la lotta con l’angelo. Che era “integro” nelle sue
        proprietà e nei suoi beni materiali, nulla gli era stato sottratto. E
        che era “integro” nella Torà e nel suo modo di comportarsi, avendo
        prevalso sia su esseri di carne (Lavan ed Esav) che su esseri spirituali
        (avendo prevalso sull’angelo divenendo Israel).
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        “...Perché vuoi sapere il mio nome? e lo benedisse lì.” (Bereshìt 32, 30).
        Il Grande Rabbì Meyìr Simchà ha-Cohen di Dwinsk, conosciuto per
        il suo commento come Meshèch Chochmà, basandosi sul Talmud
        Yerushalmì (Berachòt 8a e 8b; Meghillà 1a e 19) ci spiega che è riportato
        nelle Tosafòt (Ghittìn 62): Ecco che chi benedice deve conoscere il
        nome di colui che riceverà la benedizione. Non è però questo il caso
        di Yakòv, perché quando riceve la benedizione da suo padre Itzhàk
        è scritto (Bereshìt 27, 29): “...coloro che ti benedicono saranno
        benedetti ...”, quindi colui che lo benedice viene automaticamente
        benedetto. Così è per l’angelo che ha benedetto Yakòv, egli è già
        benedetto, di conseguenza non ha la necessità di far conoscere il suo
        nome.
        Rav David Elia Sciunnach
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